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Musica, intervista al Maestro Paolo Cavallone
Intervista di Marialuisa Roscino
Musicista e poeta, Paolo Cavallone è considerato come uno dei maggiori compositori della scena musicale contemporanea. Le sue composizioni sono state eseguite in tutto il mondo e incise su CD prodotti da Rai Com, Tactus e Albany Records. Numerose le collaborazioni e le commissioni ricevute. Dopo aver tenuto conferenze e masterclass in numerose università in Europa, USA e Canada ed essere stato Collaboratore di Ricerca alla State University of New York e Professore di Composizione e Orchestrazione alla Victoria University di Wellington (Nuova Zelanda), è attualmente titolare della cattedra di Elementi di Composizione al Conservatorio “Vivaldi” di Alessandria. Lo abbiamo incontrato.
Maestro Cavallone, la musica contemporanea del Novecento ha raggiunto punte estreme di individualismo: ogni compositore era divenuto quasi autoreferenziale anche in termini di linguaggio musicale. Quello che era una volta detto “stile” o corrente artistica è sembrato mancare. Pensa vi sia una direzione per il futuro in tal senso?
Innanzitutto, vorrei osservare che il linguaggio non si crea dall’oggi al domani, ma è il risultato del confronto costante con la società (tant’è vero che si evolve: il Latino è divenuto Italiano in Italia e Spagnolo in Spagna, ad esempio). La società contemporanea presenta una molteplicità di sovrastrutture e, conseguentemente, di sottoculture che hanno generato vari ambiti di configurazione sonora. Dunque, la creazione si è rapportata, in varia misura, a ciascuno di questi colori. Personalmente, sono molto interessato alla possibilità di inquadrare da diverse prospettive un unico “oggetto” musicale e interiore, al fine di restituirne possibili letture. Stiamo entrando in una nuova epoca e l’urgenza del presente, a mio avviso, è scoprire la lingua nuova, scritta dalla nuova realtà; i nuovi lidi nel processo di de-composizione e di ri-composizione del percepito. Ovviamente, tenendo sempre presente il passato, presupposto essenziale.
È recentemente scomparso il grande compositore italiano Azio Corghi che è stato suo Maestro nell’ambito dei corsi di alto perfezionamento da lui tenuti all’Accademia di Santa Cecilia e all’Accademia Chigiana di Siena. Se non erro ci riferiamo al triennio 2002-2004. Corghi parlò di lei come di un compositore con “un approccio estetico nuovo e con un livello altissimo di scrittura vocale e strumentale”. Qual è il suo ricordo del Maestro Corghi?
Sono ovviamente lusingato dalle parole del Maestro, che era un vero virtuoso: al di là dello scambio umano che si instaurava e dell’essere d’accordo con lui o meno, alla fine ciò che restava (e resta) è la sua eredità e sapienza (anche in termini di tecnica, nella sua grande attenzione al dettaglio) che era capace di trasmettere ai suoi allievi. Il mestiere l’ho letteralmente “assorbito” da lui “respirandolo”. Era sufficiente assistere alle sue lezioni ad altri allievi per imparare certi equilibri strutturali che invadono ciascun parametro musicale. Quanto trattenuto riaffiora in me quotidianamente, metabolizzato e maturato nei meandri dell’interiorità. Il suo insegnamento praticamente vive in me, come penso in tutti i suoi allievi. Ho avuto modo di esternare a lui questo mio pensiero qualche tempo fa. Ne sono felice. Avrei voluto parlare con lui in questi giorni, ma purtroppo non sarà più possibile.
Il suo atteggiamento estetico è stato definito come “rivoluzionario”, una sorta di poetica dell’attraversamento: ce ne può parlare?
Nella mia musica l’uso di archetipi storici è funzionale al tentativo di inquadrare da diverse angolazioni/prospettive un unico gesto musicale, come accennavo. Ne conseguono una serie di configurazioni apparentemente diverse se non contrastanti fra loro: attraverso, nel mio comporre, delle vere e proprie configurazioni diverse di scrittura che apparentemente sono contrastanti fra loro, ma in realtà complementari perché informate dalla stessa radice.
I titoli dei miei brani, come Confronto, Confini, Porte, sono fortemente espressivi di questa poetica. In un certo senso cerco di assecondare le possibilità che la musica offre/chiede, con apertura, dunque senza escludere. Sono molto interessato all’esistenzialismo di Abbagnano, alla possibilità trascendentale di cui lui parla (che io amo pensare come trascendente). La possibilità di inquadrare da un’altra prospettiva un pensiero dichiaratamente negativo come quello esistenzialista, e renderlo positivo, è stata per me uno stimolo intellettuale notevole. Penso che più che mai il concetto di possibilità e quello di necessità, oggi, musicalmente, possano coincidere. Essere musicisti vuol dire confrontarsi con una molteplicità di mondi sonori in un nuovo riconfigurarsi dei confini abituali; essere aperti: all’improvvisazione; ai vari modi di fare musica; ai vari, cosiddetti, “generi”. Un oggetto sonoro può essere inquadrato dalle più diverse prospettive ed assumere diversi significati.
Ricordo che in un suo brano intitolato “Metamorfosi d’amore” ci sono riferimenti alla guarigione della psiche proprio in relazione alla situazione dell’uomo nella società di oggi. Un lavoro importante che le fu commissionato dalla Mitteleuropa Orchestra di Udine e dall’Orchestre National de Bretagne di Rennes in Francia. Ce ne può parlare?
Metamorfosi d’amore è un doppio concerto per flauto, violoncello e orchestra preceduto da un monologo o, meglio da un dialogo fra la componente maschile e femminile della psiche. Alla base della creazione del brano si trova, dunque, la riflessione sulla necessità d’amore nell’equilibrio fra le componenti fondanti della psiche umana. Tuttavia, diverse suggestioni e stimoli sono confluiti nella realizzazione di Metamorfosi d’amore. Da un lato, il bimillenario della morte del poeta latino Ovidio, autore delle Metamorfosi e dell’Ars Amandi, capace di stilizzare miti e leggende della tradizione classica in un virtuoso cadenzare metrico che si apre ad intuizioni archetipiche ed a significazioni suscettibili di molteplici interpretazioni. D’altro lato, il concetto contemporaneo di mutazione come metamorfosi interiore e del corpo, come pure della dimensione maschile e femminile della psiche umana. Tale dualismo e conflitto nel cuore stesso dell’uomo lo aveva denunciato il poeta latino in tempi remoti: “Video meliora proboque, deteriora sequor”. Dunque, nell’imperfezione umana si realizza la manifestazione di amore.
Da un’angolazione diversa, le relazioni fra dei e umani della mitologia classica, di cui le Metamorfosi di Ovidio rappresentano una sorta di compendio, sembrano orientarsi verso una espressione della sensualità in direzione di un’astrazione formale. Quanti legami sembra avere la cangiante prospettiva di Ovidio con Il Cantico dei Cantici biblico, con la relazione Sposo-Dio, Sposa-Israele; con lo sposo amore che penetrando la sposa, la purifica. Simbolicamente, musicalmente, ho inserito, a tal proposito, un Valzer nel brano con valore di richiamo al concetto di erotismo come archetipo storico.
Capograssi esprimeva in Lettere a Giulia dell’importanza di amare: “si vive solo quando si ama”, dichiarava il filosofo. L’amore come cura, come bisogno che ci trasforma, in una metamorfosi d’amore che guarisce le ferite del nostro passato; le componenti maschili e femminili nelle dinamiche del vissuto (dunque nella relazione e/o confronto con il reale, ma anche nel conflitto interiore proprio di ciascuno di noi). La “dialettica spirituale” che si innesta non ha necessariamente natura patologica, ma probabilmente si configura come la naturale esperienza dell’uomo contemporaneo. Dunque, il concetto di metamorfosi umana, della psiche, all’ingresso di amore. Una tale visione dona nuova luce all’antico, quanto sedimentato, topos di Psiche e Amore (stavolta dalle Metamorfosi di Apuleio). Il dipinto Psyché et l’Amour di Francois Gérard, come pure la scultura di Antonio Canova, mostrano come Principessa Psiche sia sorpresa dal bacio dell’invisibile Cupido. Una storia d’amore, un’allegoria metafisica, in questo caso, del tema neoplatonico dell’unione dell’anima umana e dell’amore divino.
Nella composizione del brano un significato particolare assume, musicalmente, la scelta dei solisti: il flauto, antropologicamente uomo-dio e donna-violoncello, umanità. Strutturalmente il brano, nella sua metamorfosi dinamica, assume, nelle varie configurazioni, significati sempre diversi. Ciascun elemento viene inquadrato da diverse prospettive al fine di restituire, nella sua proliferazione gestuale, un’unità dei contrari, Oggi, necessaria.
Un’ultima domanda: la musica consente di offrire sollievo quando a ciò che ci circonda, non siamo più in grado di trovare una reale spiegazione logica, come nel caso della guerra. La musica, è risaputo, che in tempi di guerra, può donare “speranza” e aiutare le persone, che vivono questo momento difficile e che ne sono terrorizzate, a non sentirsi sole. Secondo Lei quanto la Musica è utile in questi contesti?
La guerra è il risultato di una perdita di sapienza dell’umanità, quando interessi egoistici invadono – alterandolo – l’equilibrio, l’aura (uso questo termine in senso poetico) che attraversa e caratterizza un determinato momento storico. È chiaro che la ricerca di un artista, che crea nel confronto con la contingenza che lo accoglie (distinguendo un reale effettuale, come generato dal complesso delle sovrastrutture sociali, e un reale inteso come Verità, sempre più nascosta dietro le “cose” – intese in senso filosofico), restituisce una sonorità capace di “tradurre” il divenire della dinamica sociale. L’intenzionamento della produzione e creazione del suono ne genera la sua “collocazione spirituale” nel rapporto con la sua ricezione (quindi con la nostra interiorità). Quanto detto si riferisce al processo poietico, vale a dire creativo, demiurgico. Sul piano estesico, in riferimento al processo di ricezione dell’opera, l’oggetto neutro, come oggetto sonoro tout court, si carica delle più varie dinamiche del percepito. La guerra distrugge, l’umanità e l’uomo attraversano, nel confronto col reale, un processo di modificazioni tali da rendere difficile una generalizzazione dell’effetto spirituale o interiore/psicologico nella ricezione. Credo fermamente a quanto descrive Hanslick nel Del bello in musica [Vom Musikalisch-Schönen], vale a dire che la dinamica e il movimento siano le caratteristiche del suono come pure delle emozioni. Ed è quindi grazie ad un collegamento inconscio che possiamo emozionarci all’ascolto organizzato dei suoni. In generale, possiamo dire che la musica/il suono è sempre suscettibile di caricarsi di un potere consolatorio e benefico, anche nello stimolare il ricordo di eventi del nostro vissuto.
[1] Vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio pronuncia Medea – nel Libro VII delle Metamorfosi – che per l’amore di Giasone viene meno ai propri doveri.